Tommaso Paloscia
“I quadri di Giuliano Pini che scandiscono il tempo della memoria” in “Il tempo della memoria – Cronache fiorentine” op. citataAccadde in Toscana 2 Edizioni Polistampa Firenze 1997 pagg.156, 157
È un modo bellissimo di raccontare Firenze. Reidentificarla a poco a poco attraverso immagini che appena ne sfiorano le strutture architettoniche, e tuttavia riempiendo gli spazi con ansie e gioie rimaste nel ricordo di chi la conosce e l’ama visceralmente, è come riviverne una storia fantastica di cui il pittore che narra è stato protagonista, spettatore e anche vittima. Ricordi rievocati dal fondo della memoria e perciò nebulosamente avviluppati in sensazioni che riconducono spesso quegli eventi a misteriose riproposte degli stati d’animo dai quali sono stati accompagnati nel momento stesso in cui sono apparsi: frantumando magari il tessuto socioculturale che manteneva la continuità di un tradizionale modo di vivere oppure esaltando la bellezza e l’incanto di certi raggiungimenti. E sono tutti inni improvvisi elevati dal profondo verso la grazia che sublima gli episodi, anche i più accoratamente dolorosi.
Pini ha chiesto alla memoria, e a mio avviso con encomiabile successo, di assisterlo nella descrizione di tutto quanto la sua città rappresenta per l’animo suo scegliendo le occasioni nell’ampio assommarsi dell’episodica che quell’inesauribile archivio della mente conserva per istinto e per naturali funzioni psicofisiche. E ha cercato di identificare dunque dentro di sé questa Firenze un po’ misteriosa e in ogni caso esaltante poiché l’ha rintracciata altrove, ossia fuori e lontano dagli schemi che in ogni tempo l’hanno riproposta in una specie di celebrazione solenne nelle sue architetture, nei suoi monumenti, nelle visioni che da certe postazioni collinari la inquadrano come esempi di civile nucleo di vita o di romantica rappresentazione della sua cultura plurisecolare. Pini si è calato dentro a queste cose evitando
ne il contatto diretto e sorprendendone alcuni aspetti che sono frammenti utilizzati a identificare, come nei reperti archeologici, la sostanza dell’episodio. Fuggevoli apparizioni ma testimonianze di rara suggestione. Così che quei fatti riemergono anche nella memoria di tutti coloro che li hanno vissuti. E, quasi effetti di un sortilegio, ripetono un’antica storia in cui si adagiano le vittorie e le sconfitte attraverso le quali la città toscana riemerge ogni volta dal ripudio del proprio ruolo che l’ha vista titolare di un protagonismo stupendo.
Si ha la sensazione che la mano e la mente del pittore abbiano ritrovato ogni volta l’accadimento giusto che, significativo nell’esperienza vissuta dall’artista, si faccia emblema di una situazione inedita, certo, ma pur capace di coinvolgere quanti ne abbiano più o meno direttamente conosciuto gli effetti. “Una serie di quadri non realizzati perché, non rientrando nei cicli in cui cerco di concentrare via via la mia pittura – dice l’autore parlando dei temi che per la concezione contenutistica della sua pittura d’immagine hanno un valore non trascurabile – e proiettati nella fantasia come fatti legati all’esistenza e non ai miti musicali o letterari descritti nei mei dipinti, li ho accantonati con l’intenzione di realizzarli un giorno. Un giorno che non è mai venuto in loro soccorso”.
Ora, in questa fortunata serie, la memoria si fa carico delle sue responsabilità e quei personaggi e quegli episodi che avevano colpito la sensibilità di Pini o, meglio, la sua immaginazione, riaffiorano come anime in una sorta di giudizio universale per ricevere l’assegnazione del luogo definitivo in cui vivere la vita alla quale l’artista li aveva destinati sin dal principio. Ci sarà stata certamente una pausa di riflessione onde rievocarne le immagini in tagli appropriati ma ora che i giochi sono fatti ogni cosa appare nel posto giusto. Persino cronologicamente giusto. Perché si parte dalla tragica conclusione della vita del padre di Ottone Rosai, un episodio cioè da Pini non visto ma rievocato e inciso nella sua ancor tenera memoria dal racconto che gliene aveva fatto Rosai stesso, sconcertante e affettuoso insieme: un racconto, destinato a entrare nei pensieri familiari del ragazzo Pini per via di un cordiale rapporto da quando il Maestro aveva espresso più volte la simpatia per il suo lavoro allorché, appena alle prime armi, frequentava la Galleria “L’Indiano” di Piero Santi. Un sodalizio che parte da lontano, dunque. E poi, progredendo nella rappresentazione dedicata ai ricordi rosaiani, c’è l’impulso fornito da una considerazione critico-affettiva su quella “maledizione” che deturpava l’immagine di un volto e che accomunava i ritratti del pittore fiorentino alle immagini stupendamente disastrose dipinte da Bacon. E poi ci sono il cantante lirico Kraus e il danzatore di flamenco Gades penetrati nella sua coscienza di musicofilo senza frontiere. E per giunta amici. E ci si inerpica nell’immaginario con fatti ancestralmente avvertiti, come il matrimonio dei propri genitori con tutta l’emozione che gli suscita il ritratto della madre nell’episodio accaduto, prima che egli nascesse, nella basilica di S. Lorenzo, nel suo quartiere primevo. Fino ai grandi quadri che scandiscono il tempo della memoria, dalla tragedia dell’alluvione alle immagini della Firenze che avanza nella trasformazione del costume, di quelle che sono state le sue caratteristiche storiche più attraenti; così la nuova “casbah” del mercato di S. Lorenzo con i personaggi recentemente penetrati in una cultura che non gli appartiene violandone i termini che erano parsi perentori nella loro sacralità e non lo sono: e a codificare infine la consapevolezza della cultura che costituisce l’orgoglio della città. Pini sfocia nell’allegoria intitolandola “–L’oro del tempo-“: il prigione michelangiolesco che tenta di uscire dall’oro in cui è appunto prigioniero per comunicare qualche cosa della sua antica prestigiosa avventura alle generazioni ultime, a consegnare loro il “testimone” di una corsa che bisogna continuare nella nuova frazione che è più impegnativa delle precedenti. Un auspicio.
Questi i contenuti alla cui riconsiderazione ha contribuito l’idea di Renzo Melotti, una specie di manager-ciclone, emiliano, il quale è stato capace di ottenere, frutto di una lunga aurea reclusione di lavoro, l’affascinante ricostruzione pittorica dei sogni, delle delusioni, delle gioie che costituiscono una confessione di Giuliano Pini dedicata alla sua Firenze. E tuttavia la mostra (conclusa con un atto di amore e di riconoscenza con il pittore che, accanto alla moglie Roberta, ritrae il prestigioso edificio dell’Istituto degli Innocenti dove la mostra viene ospitata: una firma autografa) è meritevole di una rapida considerazione estetica che offre al Pini una condizione di privilegio nella situazione fiorentina. L’artista, dunque, legato alle realtà contraddittorie che il paese gli ha proposto, ha cercato con ogni mezzo e con una volontà sorprendente di astrarsene nel miglior modo possibile per fare solo e unicamente pittura. E avendo come guida di fondo l’immagine che non ha mai abbandonato, è riuscito a conseguire risultati notevoli attraverso un linguaggio nel quale i valori formali hanno bilanciato quelli morali che sono propri dei contenuti. Con ciò organizzando, con piena conoscenza della tecnica relativa, una grammatica e una sintassi in cui il linguaggio medesimo si coniuga in maniera felice; escludendo dubbi sull’autenticità di un’arte che mostra il suo fascino via via che ci riesce di leggere i suoi quadri. Di penetrarne cioè i segreti del segno e del colore nei quali, sempre con una certa dose di mistero, si cela il suo messaggio.
Tommaso Paloscia