Tommaso Paloscia
Galleria Palazzo Vecchio, Firenze catalogo mostra aprile maggio 1987.
« Giuliano Pini ha vent’anni… »: è stato Giovanni Colacicchi, allora critico della Nazione, a rivelare al pubblico non solo toscano l’esistenza del pittore fiorentino e di quelle opere che — ha scritto — « ci inducono a pensare a lui come a uno dei più promettenti giovani che abbiamo incontrato ». E da quel giorno sono trascorsi altri trent’anni. Che cosa è riuscito a fare nel frattempo Giuliano Pini? Ha mantenuto le promesse che l’autorevole maestro del Novecento aveva individuato in quella sua pittura — soprattutto ritratti — che il giovanissimo artista esponeva nella galleria « S. Trinita »? e quale ne è stata l’evoluzione e in quali situazioni egli è stato collocato dalla critica, ufficiale e non, che si interessa di queste faccende?
Quando, nel 1961, Mario De Micheli si assunse il compito di seguire da vicino il « pupillo » (per oltre dieci anni gli è stato prodigo di opportuni consigli), ne presentò l’opera nella galleria fiorentina « Nuova Corrente » affermando lapidariamente « Questi disegni di Pini hanno una qualità fondamentale: partono direttamente, senza sofismi, dalla realtà; in essa hanno un riscontro urtante, privo di qualsiasi attenuante »; un concetto destinato ad affievolirsi proprio in quella sua fondamentale certezza nel reale, mutata molto più tardi in una sorta di « ambiguità » che « rimanda costantemente dalla sponda dell’esperienza mondana a quella del sogno e viceversa, dal banale al sublime, dall’esistenza alla esistenzialità ». E fu onesta e acuta puntualizzazione. Non è facile dire quali siano stati i motivi che stimolarono il Pini di quegli anni a trasferire la propria avventura figurativa dalla osservazione critica diretta della realtà a un rifugio più intimista dove le medesime figure, stracciate e malmenate e tuttavia amorevolmente ricomposte, si facevano personaggi e protagonisti di vicende oniriche. Il colore, certo, fortemente recepito nella sua funzionalità psicologica, aveva avuto un ruolo rilevantenello spostare per sfumature linguistiche il baricentro della ispirazione pittorica verso aree meno afferrabili perché sempre meno identificabili con situazioni reali. E penso che altri fattori abbiano inciso, ciascuno per la sua parte, in quella trasformazione che ebbe inizio col prelevare dalla semplice citazione dixiana il linguaggio di Pini, trasferendone i contenuti attraverso tensioni culturali e soprattutto musicali in ricostruzioni poetiche di mondi che furono sino dall’origine irreali. L’amore crescente per Wagner divenne determinante a mano a mano che la cultura del pittore si addentrava nella conoscenza dell’opera del maestro tedesco e più ostinatamente si avventurava a penetrarne le ambiguità delle situazioni e i risvolti violenti rendendone tuttavia dolci le immagini che sono state da sempre di sapore vagamente liberty anche se violentate dal colore in maniera vieppiù suggestiva.
La solitudine è un caposaldo al quale vengono progressivamente ancorandosi le maturazioni delle idee e persino del segno, lineare, trascinandovi i pensieri che sembrano svincolarsi dal quotidiano per ricercare nel silenzio e nella quiete la serenità di esame, negata dal bailamme della vita cittadina, e la necessaria limpidezza di espressione. È in questa solitudine che la musica wagneriana si fa « edificio del sogno », nel quale le trame dei racconti trovano la possibilità di immergersi totalmente nella leggenda, senza riserve; respirando la vita e l’odio e la morte fino all’assurdo; e con la morte, antagonista e complementare l’amore. Parsifal, Sigfrido, Wotan escono dalle pagine misteriose della letteratura medievale per inebriarsi di ulteriori sacrifici e di nuovi glorificanti atteggiamenti. Ancora una volta « dal banale al sublime » questa pittura trova strumenti di esaltazione e di poesia che aiutano l’autore a districarsi fra contaminazioni e aspirazioni al divino; come i personaggi che manipola e dirige a sua volta con il fervore e l’abilità di un musicista-letterato: per nuove rappresentazioni della leggenda onde questa si faccia parte integrante del mito. Entro i grandi cicli, e fuori dalle scene, talvolta Pini ama descrivere alcune parentesi, anch’esse affettive, indirizzate a personaggi fuori del mito ma già validi protagonisti di nuove leggende nate dalle vicende contemporanee e che alimenteranno forse i miti di domani. Sono i ritratti — e dunque ancora una volta i ritratti che stupirono la critica iniziale — a compiere il miracolo della decantazione delle forze che impegnano tumultuosamente i sentimenti scatenati attorno a mostri psicologici, dal giovane Werther alle walkirie. È come rimeditare sul passato, anche il più recente; un modo di riprender fiato attraverso una edulcorazione non programmata dell’immagine e destinata ad autodistruggersi via via che le idee si ricompongono, e prende vigore la nuova spinta. Sotto questo aspetto, Pini è uno dei più completi artisti del nostro tempo per la serietà dell’impostazione del lavoro e per la metodica che riesce in buona parte a colmare le improvvise cadute di umore, vale a dire le crisi drammatiche di spirito che ricorrono anch’esse ciclicamente, a rendere più complessa l’espressione dell’ancor giovane pittore fiorentino. Dice Vespignani a Pini: « Mi piace un pittore, non la squadra cui appartiene; sono affascinato dall’eccezione, non dalla regola… da tipi come te, casi, personalità anomale »: sembra che si guardino negli occhi e il più anziano riesca a leggere nell’altro i veri motivi del fascino che la pittura di lui suscita negli esperti consapevoli e negli inesperti istintivi. Ancora quella solitudine torna a far pesare la sua presenza che schiaccerebbe la coscienza se non si animasse di fantasmi. Per cui i modelli non vengono da lontano ma sono quelli inventati nel recinto della propria immaginazione che è sempre più vasto di qualsiasi recinto; per cui certe analogie figurali possono essere ripescate magari nella storia, che è di tutti e non di questo o di quello. Oggi Pini si ripresenta a Firenze dopo il solito lungo periodo di clausura. Che cosa è maturata nella mente tentata di reimmergersi negli strati profondi della cultura é soprattutto nei luoghi più remoti della coscienza? Innanzitutto un nostalgico ritorno alla cronaca come fatto di base; quindi a quella realtà cui giustamente faceva riferimento il De Micheli. Ed è un nuovo viaggio che si rifà, come ho accennato, al ritratto ma anche agli stimoli dettati dalla musica. Prendiamo come fatto iniziale di questo nuovo ciclo — perché di nuovo ciclo si tratta — l’immagine ispiratrice che, ovviamente, è quella di un musicista, Alfredo Kraus: il suo nome è legato al « Flamenco », che è melodia ma soprattutto canto andaluso di natura rapsodica; e le sue strofe ritmano i passi della danza tutta gitana e quindi improvvisata. E drammaticamente affonda nell’umore popolaresco. Una coppia di ballerini, dapprima delicatamente sottratti al motivo wagneriano del Parsifal ancora incombente e poi a poco a poco, quasi in stato di semicoscienza, trasferiti nell’ambiente diverso dove ancora una volta è solitudine grave e misteriosa. I soggetti sono subito calati nel vortice della danza « figurata » che li avvolge e li difende isolandoli. La pittura si fa molto meno fumosa, il linguaggio stesso abbandona la schermaglia dell’abbellimento decorativo e diventa scarno fino a silhouettare parte dell’immagine, come a fissarne l’attimo colto sulla figura in movimento per tramandarne, irreale e immota, l’effigie alla storia. Voglio dire alla storia di questa danza, spietata come il ballo delle walkirie, magari romantica come i sogni del giovane Werther macalda — anzi, caliente — come il ribollire dei sentimenti andalusi. E vi si agitano i due profili, soprattutto quello di lui, il ballerino frenetico e instancabile, l’inventore del « passo »; che è un profilo assai simile, sebbene profondamente segnato, a quello di Kraus il quale a sua volta assomiglia allo stesso Pini: un giro di danza anche questo, con molta fantasia e tanta ambiguità. Una ambiguità espressiva che frustra ogni identificazione e dona al quadro il respiro di una immagine strappata di un film; e posta come « affiche a ritraesse questa leggenda gitana che il pittore ha sentito dever rintracciare ad ogni costo sul cammino della sua ricerca, di studiarla, per poi riferirne una volta che in lui è diventata incantesimo; ossia un fenomeno magico attraverso il quale l’episodio — la cronca, se si vuole, o la realtà — si intride di umori irreali e dienta esso stesso leggenda. E nasce il nuovo mito.
Tommaso Paloscia