Dario Micacchi
Le radici del grido” aprile 1986
Qualche anticipazione su quel che preparava l’immaginazione pittorica di Giuliano Pini l’avevo avuta, più di un anno fa, nello studio fiorentino di Borgo degli Albizi. Ancora una volta era la musica che per segrete vie lo guidava dopo la sublime immersione nel grande flusso di colori e di forme della wagneriana maledizione dell’oro che aveva dato vita al ciclo «L’edificio del sogno». Fui attratto non dagli ultimi dipinti wagneriani, tra i quali una meravigliosa nuvola azzurra di un Parsifal sognato per la privata stanza di Sylvano Bussotti – ancora la musica! – ma da un piccolo quadro, un ritrattino assai somigliante del ballerino Antonio Gades che allora dava spettacoli in Italia e del quale avremmo visto una strepitosa «Carmen» in film. Capelli neri con riflessi azzurri, la carne tirata sulle ossa come un guanto, una camicia rosso vermiglione fitta di pieghe. Sembrava che l’energia interiore avesse modellato la sua figura come una lama. Il disegno era potente, severo, il «clima» psichico misteriosamente tra vita e morte, e a saper ben vedere dall’immagine del ballerino veniva una musica melanconica e fatale. Lo vidi, poi, danzare e quel ritrattino lo ripensai come una prefigurazione. Nello studio fio-rentino c’era un altro dipinto di grande formato appena cominciato dove già era ben delineata la figura del cantante Alfredo Kraus amico di Giuliano. Altra figura del destino, quella del Werther di Massenet, biondissima e azzurra, un concentrato di tutta la passione e la dolcezza che un uomo innamorato può portare dentro di sé e in giro per il mondo. Sia Gades sia Kraus come figure pittoriche non appartenevano più alla furia così umana di Brunilde e allo sprofondamento di Wotan: erano fuori dalla voragine, lontanissime dal fiume tedesco inquinato dall’oro.
Ebbi la conferma più tardi che Giuliano Pini era in un periodo assai creativo e nuovo. Ero andato a stanarlo nel garage della casa di Cavriglia, a sud di Firenze, dove si era improvvisato uno studio solitario. Mi mostrò subito un primo «pezzo», un grande disegno con una cornice nera marmorea che esasperava la severità. Fu, per me, una folgorazione. Ecco, di nuovo Antonio Gades che avanza da sinistra in uno di quei suoi passi di danza come se avanzasse una lama di coltello. Dall’alto a destra scende un angelo greco bellissimo e lieve che con tenerezza estrema gli porge un teschio. Gades è sublime nella sua energia marciante che lo porta verso la morte, è trasfigurato nel gesto da un disegno puro e potente, tragico ma sereno come sapeva essere il disegno dei Greci o anche di Botticelli nella «Calunnia» quando delinea ritmicamente i corpi con la pelle ben tirata sulle ossa e le grandi vesti svolazzanti come grandi vele mosse da un vento perverso.
Con quell’angelo annunciatore di morte a Antonio Gades ho vissuto e parlato fino alla seconda visita allo studiolo di Cavriglia dove il tema dell’annunciazione è così centrale, per i tempi che viviamo nella vita e nella cultura, da essere sconvolgente. Prima di queste attualissime annunciazioni dipinte da Giuliano Pini, io mi ero fatto un’idea piuttosto solida quanto sconsolata di un tempo esistenziale e storico nel quale nessuno più aspettasse annunciazioni, anche perché mi sembrava che non ci fossero in giro angeli annuncianti. È il tempo, il momento delle cose secche come dice un verso di Garcia Lorca. La situazione italiana per me si poteva esemplare con quell’immagine ironica ma tremenda dipinta tanti anni fa da Alberto Savinio: quella stanzetta dove sta seduta una signora piccolo-borghese dalla testa di papera che guarda senza sguardo una grande finestra dove appare un bellissimo angelo greco che vorrebbe fare la sua annunciazione ma si ritrae stupefatto e sgrana gli occhi immensi al constatare che nessuno aspetta il suo annuncio, che non c’è necessità poetica e sociale di una qualche annunciazione. E pensare che già Giorgio De Chirico parlando dell’attesa metafisica aveva affermato che importanti non erano tanto i segni già manifesti ma quelli nuovi che potevano entrare nello spazio del quadro! Per me l’immagine della mancata annunciazione di Alberto Savinio è diventata un’icona del nostro tempo. Immaginate il mio stupore e la mia commozione e il mio entusiasmo nello scoprire che il pittore avesse pensato che questo è, invece, il tempo delle annunciazioni, che la pittura moderna ha bisogno di annunciazioni. Per dirla ancora con Garcia Lorca – i cui versi ci hanno aiutato a trovare il titolo emblematico «Le radici del grido» per tutto il nuovo ciclo di dipinti e grandi disegni che viene presentato in prima assoluta qui a Roma – sotto le somme, sotto il denaro, scorre un fiume di sangue tenero. Credo che sia questo fiume sotterraneo di sangue tenero che dà energia e anche bellezza alle figure di Gades, di Kraus, dell’angelo annunciante e delle altre figure umane che ascoltano, incantate o atterrite, l’annuncio e seguono il gesto imperioso dell’angelo che porta e porge il teschio che sembra a volte un teschio/fiore/scrigno.
Per dire pittoricamente di un tempo di morte, Giuliano Pini è andato a scovare, nella pittura e nella musica, le figure dell’energia imperiosa, Antonio Gades, dell’amore sacrificale di Werther, Alfredo Kraus, degli angeli della bellezza che stanno nelle pale del Botticelli, suonano il violino nella «Fuga in Egitto» del Caravaggio, insegnano a leggere all’analfabeta Matteo caravaggesco e illuminano i vicoli napoletani e caravaggeschi delle Sette Opere di Misericordia. Giuliano Pini è sempre stato un grande disegnatore naturale e d’immaginazione ma, in questo ciclo delle «Radici del grido», ha portato il disegno a una essenzialità tragica che è tanto vicina a quella ellenistica dell’Altare di Pergamo o, se preferite, a quella del Botticelli, di Cosmé Tura, di Ercole de’ Roberti, di Grünewald, di Otto Dix, di Egon Schiele.
Anche nel ciclo wagneriano il pittore ha disegnato magnificamente, ma era un disegno del flusso e della voragine e della fiamma. Ora disegna. Ora disegna ubbidendo a un ritmo interiore che è musicale, affinato sul passo di Gades e sul canto di Kraus: un disegno-linea di forza che porta all’evidenza nello spazio le energie di vita e di morte più profonde e segrete. Si guardi il grande trittico di disegni composto da «Il ballerino e l’ombra del tempo» e le due varianti di «El duende»: un passo di flamenco. Oppure gli altri disegni «Il ballerino e l’angelo della morte» e «Angelo della bellezza…». Il disegno lineare, assai potente e dinamico è sottolineato per quanto possibile dalle pieghe delle vesti, scarica nello spazio una grande energia, quella energia esistenziale, tanto organica/erotica, che si libera fino al grido, e al canto del flamenco e del Werther, da radici profondissime.
Dal primo ritratto del 1984 agli ultimi grandi disegni la figura del ballerino Antonio Gades si è caricata di significato, è diventata una figura/struttura portante come avveniva per l’arte antica, pagana o cristiana che fosse. È costruita la figura di Gades, nei dipinti e nei disegni, da sistemi di segni molto forti e potenti che agiscono come linea-forza in fasci quasi sempre centripeti e che le vesti, in modo avvolgente, esaltano, esasperano, si potrebbe anche dire che portano al grido: Di tale segno con cui fantastica Giuliano Pini si deve dire, con parola musicale della lingua spagnola, Jondo, profondo. Il ritratto di Antonio Gades è molto somigliante; ma più somigliante è quel moto di linee in fasci di energia che fanno la sua figura e sono la metamorfosi pittorica di una energia che Gades ha nel portamento, nel gesto, nel pulsare del ritmo, nel gesto erotico e nel grido lamento. Antonio Gades si fa traversare da un’energia erotica e melanconica che viene da lontane radici oltre che dalla vitalità iperappassionata del presente, anzi dell’attimo del senso e dell’esistere. Ma questa energia non si farebbe portamento e gesto musicale se non avesse una eco lontana, nostalgica, andalusa, per dirla ancora con una parola della lingua spagnola, che appartiene alla musica araba e spagnola. Ma l’eco viene da molto lontano: dal «mi’ràĝ» o ascensione di Maometto al cielo fatto di tanti cieli con castelli, giardini, frutta, donne bellissime e fedeli e quante altre delizie si possano mettere assieme in una lunga pace. Credo che Giuliano Pini abbia sentito e visto tutto ciò in Antonio Gades. E per questo ne ha fatto una metafora del desiderio. Il Werther schiantato e chiuso come un fiore di sangue nella casacca blu, vegliato da Kraus e da Gades e come illuminato dalla calda luce di bellezza che emana dalla fanciulla in alto a sinistra, è la figura «nordica» dei sensi e del desiderio di vita e di liberazione che Gades cala nelle figure meridionali, mediterranee spagnole arabe, che interpreta.
In questi disegni, che gli Anacronisti o Neomanieristi potrebbero guardare con grande giovamento, non c’è nostalgia del Museo e della Bellezza antica della pittura, con tutti i suoi Greci e Santi, ma il ritmo regale o sognato dell’energia e della melanconia del nostro tempo. Non si tratta di immagini che cercano dignità figurativa e morale imitando o missando gli stilemi di un’altra immagine. Non c’è vagheggiamento di Greci o di santi e sante martiri (magari per abbandonarsi a dipingere drappi, manti e vessilli come fa il bravissimo manierista Di Stasio). C’è una carica sentimentale e morale che, mediata dalla musica e dal balletto, si pone come classicità del presente. Giuliano Pini lavora in quel tremendo ambiente artistico fiorentino strozzato dalla gran gloria pittorica museale e paralizzato dalla presunzione che di quel passato si nutre. E ora c’è chi pensa, dipingendo falsi Greci e false ninfe – si veda la mostra neo-manierista «Ab Antiquo» che aggancia un vagoncino ultimo al treno ormai lunghissimo dell’Anacronismo – di collegarsi tranquillamente alla bellezza antica, senza avere il minimo sospetto di che lagrime e sangue quella bellezza grondasse. È piacevole dipingere da una foto d’un marmo antico una testa d’Apollo e poi avvitarla sul corpo d’un falso Greco. È orrido guardare la testa d’una terrorista, con lo zucchetto di lana, schiacciata nel marmo della morte sull’asfalto. Ma qual è la realtà? Qual è il sogno? In quella mano/lama di Antonio Gades che fende l’aria sostenuta dal battito ritmico dei piedi c’è anche la realtà di quella testa schiacciata sull’asfalto. E nel Werther, vegliato da Gades e da Kraus, ci sono tanti e tanti giovani dei nostri orridi giorni. Nei due grandi dipinti «Werther-Homenaje a Alfredo Kraus» del 1985 e «Angelo della bellezza, conosci tu…» del 1985-86, due stupende metafore portano all’evidenza «tattile» il nostro presente col suo panico, il suo lamento, il suo grido, la sua ansia, così umiliata e offesa, di liberazione. Al possente moto tormentato dalle pieghe delle vesti si aggiunge il modellato aspro dei corpi nudi, la furia dei cani contro i vecchi; e lampeggiano colori d’oro, di fuoco, di azzurro, di viola e di verde marcio, e all’annuncio dell’angelo crollano città orgogliose. Scatta dall’incoerente assemblaggio delle figure la coerenza della prefigurazione.
Credo che l’immagine che chiude/apre tutto questo ciclo sulle «Radici del grido» sia lo stupendo ritratto di Antonio Gades contro il fulgore del sole, coi suoi capelli di corvo venati di blu il grande gesto di chi si conquista uno spazio suo sulla terra e se ne sta avvolto in un manto blu tutto pieghe come se il gran mare lo avvolgesse di onde. Per un attimo, anche l’angelo della bellezza e della morte ha posato il teschio e guarda incantato il mare. E quel rosso che grida della veste di Gades viene forse dal fiume di sangue tenero di cui diceva Lorca? Certo che un rosso così è dagli anni quaranta di Guttuso che un pittore non lo dipingeva.
Roma, 23 marzo 1986
DARIO MICACCHI