Mario De Micheli
Galleria. Forni, cat. mostra, Bologna aprile 1975
Ritorno a scrivere di Giuliano Pini. Non so quante altre volte ne ho scritto, a cominciare dalla presentazione per la sua prima personale a Firenze: quella mostra ebbe luogo in un vicoletto dove un gruppo di giovani artisti aveva aperto un’angusta galleria con l’insegna programmatica di « Nuova Corrente ».
Quindici anni fa. Ma questo non vuole essere un dato autobiografico o biografico, bensì, in qualche modo, un primo rudimentale dato critico. Infatti, in quella sua prima personale, Pini presentava una se¬quenza di grandi disegni che già rivelavano appieno le sue qualità, le sue inclinazioni, le sue « fonti » culturali. Da quella mostra in poi, egli non è mutato: ha solo approfondito, sviluppato, arricchito sia i termini del suo linguaggio che i valori dei suoi rapporti col mondo. La penetrante linearità di quei fogli è rimasta infatti alla base dei suoi modi, come la tensione ideale tra fantasia e realtà, tra situazione immediata e traslato simbolico.
Pini, sin dall’inizio, ha vissuto con intensità struggente questa contrastante esigenza di storicità e immaginazione, l’ha vissuta bruciando, consumando, reintegrando in essa gli stessi « modelli » espressivi ugualmente sussunti secondo l’intrinseca dialettica di tale contrasto. Con iò voglio dire che le componenti psicologiche e stilistiche di Pini sono tutt’altro che omogenee. Diventano omogenee solo attraverso una combustione interiore che le accoglie nella complessità di una enunciazione plastica davvero insolita nel paesaggio attuale della pittura italiana. È solo così che si realizza nelle sue immagini la confluenza del segno dixiano con quello toscano quattrocentesco, o del segno floreale con quello manieristico. Si realizza cioè in quel punto d’incandescenza creativa in cui ogni contraddizione si fonde e salda in una fisionomia unitaria. Il « risultato » che ne sgorga, tuttavia, non è in alcun caso di natura riduttiva, non significa, in altre parole, la esclusione di una componente in favore di un’altra. Significa soltanto che ogni componente sparisce in quanto tale per incorporarsi in un linguaggio ricco, dispiegato, sontuoso, calzante e coerente con un sentimento poetico di altrettanta dispiegata ricchezza e sontuosità. Si tratta dunque di un linguaggio che ha radice profonda in una visione di « ambiguità », una visione che rimanda costantemente dalla sponda dell’esperienza mondana a quella del sogno e viceversa, dal « banale » al « sublime », dall’esistenza alla esistenzialità.
La definizione più facile per Pini potrebbe essere quella di un simbolista neo-romantico. E confesso che sarei tentato di darla. Pini ama il Thomas Mann di « Morte a Venezia », ama le sinfonie di Mahler che costituivano il commento musicale del film di Visconti su quel romanzo medesimo. E così è anche vero che il binomio romantico di amore e morte è di continuo presente nelle sue opere. Il mare, il lago, la laguna costituiscono lo scenario dei suoi ultimi quadri, dove la « coppia umana » vive i suoi gesti con declamata grandezza. Il gondoliere che conduce gli amanti diventa un battelliere acheronteo, la laguna uno Stige di cupi, laccati splendori. L’immagine, al limite, si fa sofisticata, esaltata, opulenta. Un palpito oscuro e balenante l’invade. Neo-romantico, dunque, Giuliano Pini? E sia. Ma in un senso del tutto particolare. Pini cioè avverte con acuta coscienza la nostra condizione umiliata, mortificata; si rende conto della mediocrità in cui siamo costretti a vivere; e reagisce, cerca di rompere i nostri limiti mortificanti mediante la passione e l’immaginazione, che diventano sostanza metaforica della sua opera. È in questo sforzo della sua coscienza poetica, ch’egli supera anche il tema neo-romantico della nostalgia e del rimpianto per un’aspirazione liberatrice, per un’invocazione di salvezza. Ed è qui che egli, dall’interno della propria inclinazione neo-romantica, si apre la strada verso un esito diverso, non di nostalgia verso il passato, ma quasi di nostalgia per un futuro dell’uomo non umiliato e tradito. Se quindi dalle sue immagini non si generano sentimenti di prostrazione, ma di energia, ciò è dovuto a questo lievito che vi sta celato dentro, occulto e tuttavia vivo ed agente. Ed è solo percependo la presenza di un simile lievito, che diventa possibile, a mio avviso, avere con la pittura di Pini un rapporto non deviato, un rapporto autentico.
( 1975, presentazione per la personale alla Galleria « Forni », Bologna).