Mario De Micheli
Galleria. Santacroce, cat. mostra, Firenze aprile 1977.
È certo che Giuliano Pini, ormai da oltre quindici anni, si muove nel contesto dell’arte italiana come un protagonista solitario. La componente visionaria delle sue immagini nasce, appunto, da questa sua solitudine, è il risultato di un vagheggiamento esistenziale sul dissidio tra le circostanze della storia e l’impulso a sottrarsene per una alternativa nel regno dei sentimenti e dell’immaginazione. È questo il tema costante della sua ricerca espressiva.
Pini non accetta i limiti angusti in cui siamo costretti a vivere, non accetta la mortificazione della routine quotidiana. Indubbiamente le contraddizioni, le offese e le violenze del mondo lo feriscono come feriscono ogni altro uomo, sennonché provocano in lui risonanze profonde, risvegliano echi remoti, suscitano impulsi e insorgenze d’insolita creatività.
È, questo, il suo modo di reagire alla brutalità che d’ogni parte ci preme addosso. Pini non nega tale brutalità, ma la riporta alla sostanza dell’anima e ne prepara un antidoto. È la sua maniera di trascendere senza trascendenza. Così ogni dato della realtà, ogni irritazione, scompenso, malinconia e tristezza, ma anche ogni amore e furore, diventano sulla tela corrusche e cupe fantasie plastiche, paesaggi dove si compiono gesti allusivi, carichi di segreti, d’inquiete previsioni, in un gusto grandeggiante di vita e di morte. Così ogni motivo o accadimento, nelle sue mani, si dilata in scena declamata e sontuosa.
Non è quindi difficile, partendo da queste considerazioni, capire il suo
stile, la sua linea labirintica, addirittura capziosa; capire l’opulenza delle sue scelte cromatiche, i paludamenti dei suoi personaggi. Ogni quadro di Pini è un po’ come un rito esorcizzante. Nelle pieghe, nel ricciolo, nella sinuosità grafica, nell’ondulazione decorativa dell’ambiente, nella fluidità di un segno ininterrotto che definisce, con amplificata energia evocativa, la « teatralità » dei propri personaggi, egli nasconde o mimetizza o dissolve i suoi desideri, le sue febbri, le inquietudini e le angosce, la sua struggente antitesi tra l’« amor vitae »
e l’« amor fati ». L’aura tenebrosa s’accende d’improvvise fosforescenze, d’improvvise luci, e l’irradiante luminosità s’ottenebra. Ecco il « registro » poetico di Pini. Il tossico diventa elisir e viceversa, in una continua dialettica, in un continuo mutare delle parti. E’ inutile riassumere qui quanto di lui è già stato autorevolmente scritto: i testi sono, a portata di mano. Ciò che invece mi sembra giusto sottolineare è la progressiva crescita di Pini dai più lontani disegni del ’61 all’« Alluvione » del ’76: una crescita vera, dall’interno del proprio pathos, della propria natura e intelligenza speculativa. Il processo di simbolizzazione del suo linguaggio, cioè l’itinerario di trasformazione del dato dell’immediatezza in dato metaforico, è avvenuto con lenta combustione interiore, per successive acquisizioni
e persuasioni, sino alla totale liberazione dell’immagine nel più largo respiro dell’allegoria. In tale processo non vi sono stati scarti, arbitrari colpi di testa per correre dietro alle « oscillazioni del gusto ». C’è stata invece la sola preoccupazione di dare una giusta cadenza figurativa alla folla dei fantasmi che si confondevano e si confondono dentro di lui coi volti della realtà, con gli eventi d’ogni giorno.
E’ dunque in questa intensità di passione, concentrata nel restare fedele alla vicenda degli uomini a dispetto d’ogni ragione contraria e nell’assillante tentazione di maturare l’infedeltà, che Pini opera e filtra il suo miele: un miele oscuro, denso, mortale, ma di un’arcana dolcezza, che dà conoscenza ed ebrietudine ad un tempo. La sua suggestiva “ambiguità” si nutre di questo miele.
Mario De Micheli
(1977, presentazione per la personale alla Galleria « Santacroce», Firenze)