Dario Micacchi

“Per una mitografia moderna ed attuale” aprile 1990

In una pagina scritta a Mosca Wassilij Kandinskij descrive un tramonto dorato e incandescente; anzi, non lo descrive ma lo mette in musica. Per ogni colore trova lo strumento, archi, fiati, percussioni fino all’ingresso delle campane delle chiese e del Cremlino. È nota la qualità-valore dei colori sia del Kandinskij figurativo sia del Kandinskij astratto che è sempre assai musicale. Ma questa pagina-orchestrazione è stupenda ed è all’acme poetico di tutta una ricca ricerca di relazioni tra pittura e musica avviata nell’Ottocento. Più segreto e con un lirismo che predilige il “pianissimo”, Paul Klee mette in musica ritmo, profondità, melodia, radici terrestri e terragne e metafisica dei colori approdando al cielo angelico di quel che doveva essere e non è stato di Mahler, Berg e Webern.

Nelle vicende dell’arte moderna, pittura e musica si sono incontrate spesso; concretamente e magnificamente nel balletto così come lo avviò Diaghilev. Ho voluto ricordare l’incontro tra pittura e musica in occasione di questa mostra romana di Giuliano Pini che espone una selezione splendida di quadri dipinti in anni recenti alcuni ancor freschi di colori – scelti in quattro cicli ricchissimi: L’edificio del Sogno, il Flamenco di Antonio Gades, i Ritratti della coscienza storica dell’arte contemporanea da Schiele a Dix, il Minotauro (sviluppo pittorico di scene e costumi di un’opera che non è andata in scena alla Biennale Musica nel periodo della direzione di Sylvano Bussotti). Cicli con i quali Giuliano Pini ha tentato di rifondare una mitografia dell’esperienza moderna in anni che sono stati tremendi per quanti avevano, nella mente e nel cuore, progetti, prefigurazioni, sogni, annunciazioni, visioni di un mondo altro e, con esso, di una pittura altra. Il crollo di tante speranze lascia solitudine estrema, che muta in individualismo feroce, adoratore del denaro in tanta parte di coloro che lavorarono a un progetto; e lascia ferite che non chiuderanno mai. Non c’è più progetto; qualcuno dice che non c’è nemmeno futuro e che, dopo che le idee e le passioni del socialismo hanno arato in lungo e in largo il pianeta per tutto il secolo, si possono piantare soltanto i vecchi semi del mondo (e della pittura). Questo minimo cenno alla situazione esistenziale e storica degli anni ottanta non vuole minimamente ideologizzare la pittura di Giuliano Pini ma offrire un punto di vista a un occhio che ruoti a 360° (fuori-dentro-fuori), in modo che il visitatore possa meglio intendere come e perché, in un periodo di abissale caduta esistenziale e storica, un pittore tanto visionario abbia accumulato tanta bellezza, tanto lusso e tanta voluttà e tanti slanci di energia creativa proprio attorno a ferite purulente e abissali. Un flusso ora veloce ora slargante di linee in una prateria di vesti dai colori sublimi dentro i quali si aggirano uomini, giovani e vecchi, dagli occhi sbigottiti, dal corpo ossuto che fu titanico; uomini che non hanno più un centro. Ricordate il Rosso Fiorentino della Deposizione di Volterra? con quegli sguardi, con i colori di quelle vesti, che più che deporre Cristo scivolano via dalla croce? E il Pontormo dolcissimo e allucinato della Deposizione? E il Grünewald del Cristo deposto con quel corpo verde marcio trafitto da mille e mille spine che non si riescono a contare in quell’altare di Isenheim dove la bella Maddalena sgrana il rosso sangue della veste con un gesto disperato nel nero che più nero non c’è nella notte? Gli antecedenti di Giuliano Pini stanno qui. Anzi, in quel gran movimento di linee e di colori che vengono a turbare per sempre lo spazio greco sereno della Calunnia di Apelle dipinta da Sandro Botticelli. Insomma, voglio dire che l’immaginazione del pittore diventa incandescente, furiosa, melanconica, angelica, demoniaca, capace di trovare colori introvabili e di innervare le immagini di linee a flusso d’energia quasi fossero un sistema circolatorio organico di organismo vegetale o animale, proprio quando avverte lo sprofondamento esistenziale e sociale, quando il pianeta s’a­pre in voragini senza fondo; e, come in “Ebdomeros” di Giorgio de Chirico, un vecchio scultore pazzo e armato di un martello, passa di villa in villa a frantumare i vecchi di pietra che nello spes­sore del marmo hanno ancora sulla fronte arterie che pulsano debolmente. È a questo punto del panico della realtà storica, che la musica e la scena musicale vengono in soccorso del pittore: così il flusso oceanico della musica di Wagner nelle stupende figure dell’Edificio del sogno; così il ritmo di un’energia travolgente dei passi di Antonio Gades che tenta un’occupazione terrestre e la rinascita di un mito molto umano; così lo scandaglio tanto musicale della memoria di una crisi d’Europa spaventosa come la videro, nelle metafore dei corpi contorti o in sfascio, quell’Egon Schiele della “Finis Austriae” e quell’Otto Dix degli anni di Weimar e della sconfitta di Rosa Luxembourg e degli Spartachisti: e sono gli occhi melanconici e duri dei ritratti che guardano il presente dal passato e sembrano dirci: ma che fate? siete sempre lì a ripetere i vecchi gesti e a dire le vecchie parole? Da quel che vedemmo e dipingemmo noi, allora non avete proprio imparato niente? È vero che toglier quelle spine dal corpo del Cristo di Grünewald è compito atroce e nauseante, anche feroce; ma non avete mai cominciato?!

Con una memoria esistenziale storica come quella di Giuliano Pini si può tentare di rimettere in moto una mitografia. Ed ecco che il pittore, come nuovo atto pittorico attivante, ha ridestato il Labirinto, il Minotauro e il potere immenso di Minosse che ha chiuso il Minotauro nel Labirinto per celare, occultare, seppellire il deviante. Ricordo che in una serie incisa da Picasso sul Minotau­ro, negli anni di Guernica, c’è un’immagine con il vecchio Minotauro cieco guidato da una fanciulla su un molo lungo il mare. Grande e tenero Picasso! Oggi non c’è più la fanciullina; i labirinti sono tanti e più vasti e il potere di Minosse è elettronico, computerizzato e può controllare in tempo reale il pianeta e quel che gira attorno al pianeta.

Roma, 4 aprile 1990
Dario Micacchi

Torna in alto